Tra indicatori e storie quotidiane, emergono sorprese e conferme. Un quadro europeo aiuta a capire dove agire e con quali priorità. Ecco cosa rivelano i dati
La povertà non è un concetto astratto, è una fatica quotidiana concreta. È il frigorifero che si svuota prima del previsto, il bus al posto dell’auto perché il pieno costa troppo, il lavoro che non arriva mai. Nel Mezzogiorno questo peso si sente di più, e chi vive tra Napoli, Palermo o Reggio Calabria conosce bene la sensazione di essere sempre un passo indietro rispetto al resto del Paese.

In molti parlano di povertà, ma il termine che davvero fotografa la situazione è “rischio di povertà”. Significa avere un reddito troppo basso rispetto al contesto, non riuscire a sostenere spese essenziali o vivere in famiglie con pochissima intensità lavorativa. L’Europa lo misura con criteri standard, e i numeri raccolti da Eurostat raccontano un quadro che non lascia spazio a interpretazioni ottimistiche.
Secondo l’ultimo aggiornamento, Calabria, Campania e Sicilia sono tra le aree con il rischio più alto d’Europa. L’indicatore AROPE (At Risk of Poverty or Social Exclusion) supera in tutte e tre le regioni la soglia del 35-40%, contro una media UE che si ferma attorno al 21,6%. Significa che quasi quattro persone su dieci vivono in condizioni fragili, spesso senza la possibilità di costruire un percorso di sicurezza economica.
La povertà si manifesta in forme diverse: redditi bassi, deprivazione materiale, contratti intermittenti, spese energetiche impossibili da sostenere, famiglie con uno o zero occupati. Non si tratta di anomalie momentanee, ma di un pattern stabile e ricorrente che da anni colloca il Sud Italia in cima alla classifica negativa del continente.
Perché il divario fra Nord e Sud resta così profondo
Le cause sono note, ma il loro intreccio è ciò che rende complessa ogni soluzione. Il mercato del lavoro resta fragile, i salari sono mediamente più bassi e l’occupazione femminile è tra le più scarse in Europa.
Le infrastrutture sono insufficienti e i trasporti lenti ampliano la distanza dalle opportunità. A questo si aggiunge un livello più alto di dispersione scolastica e un tessuto urbano segnato da servizi pubblici irregolari che non riescono a colmare il gap.

Gli shock degli ultimi anni, dal caro energia ai rincari alimentari, hanno peggiorato la situazione. Le famiglie con redditi bassi vivono in case meno efficienti, consumano di più e pagano bollette più alte. È un circolo vizioso che brucia risorse e ostacola ogni tentativo di ripartenza.
I fondi europei di coesione e il PNRR offrono una quantità di risorse mai vista prima. La vera differenza, però, la faranno interventi che puntano sulla prossimità e sull’impatto reale: asili nido nei quartieri che ne hanno bisogno, reti di trasporto capillari, centri di formazione tecnica con sbocchi occupazionali concreti, misure per sostenere chi lavora ma resta comunque povero.
Servono risultati misurabili, meno annunci e più monitoraggio dei progetti. La trasparenza dei dati è la bussola che indica se una scelta politica funziona oppure no. Niente narrazioni consolatorie: i numeri disegnano il perimetro del problema, ma anche la strada per uscirne.
Forse la domanda più utile è la più semplice: quando osserviamo la mappa della povertà, riusciamo a vedere le vite dietro quei numeri? Se quei colori fossero istruzioni operative, da dove inizieremmo davvero a cambiare la storia?



